mercoledì, settembre 15, 2004
E’ scoppiato un amore!
Avevo freddo e una semplice maglietta a maniche corte non mi bastava. Così, nella pausa pranzo, sono scesa per andarmi a comprare alla Benetton un maglione di cotone. Tanto ci sono i saldi e non costerà molto. Così infatti è stato, ma questo è successo dopo, è un’altra storia. Ho impugnato il portafogli, ho percorso il salone del partito, ho salutato un paio di persone, ho preso l’ascensore e sono uscita dal palazzo. Per strada non c’era nessuno, solito deserto della pausa pranzo di via di Torre Argentina, dove si sentono le forchette del bar Pavia che sbattono sui piatti, i rumori di fondo della fermata dell’autobus di largo Argentina, qualche faccia conosciuta dei negozi che riaprono o che hanno appena chiuso, rumori di qualche trolley che cerca di scorrere tra i sanpietrini diretta alla casa famiglie dalle suore, nello stesso immobile del partito, ma al primo o al quinto piano. Niente di nuovo. Se non una faccia nuova, tra quelle già conosciute. Un mento lungo, occhi e capelli neri, occhiali in testa, barba sfatta, ma su un viso ancora puerile, quasi a chiazze. Un atteggiamento accaldato, anche se io avevo freddo e la trolley, come fosse un peso insopportabile, con il giacchetto di pelle scamosciato appoggiato sopra, in bilico. Lo guardo da lontano… lo conosco. No, non lo conosco, ma assomiglia a qualcuno. Lo passo, ma mi volto, forse lo conosco. Si volta anche lui. Mi rigiro di nuovo, se si è voltato lo conosco, e mi conosce pure lui… si rivolta anche lui.
Arrivo a destinazione e quasi non mi ricordo perché ero uscita. Entro e compro il maglione, 23 euro. Pago ed esco di fretta, come per vedere se è ancora lì che mi aspetta per capire chi sono. Arrivo davanti al portone del partito guardandomi attorno, nella speranza di re-incrociare quello sguardo. Nulla, ogni speranza è svanita. Entro nel portone, con lo sguardo abbassato. Lo alzo solo per suonare il citofono. Apro il cancello e mi trovo davanti la trolley, scarpe anonime nere, pantaloni di lino, camicia azzurra mezza fuori mezza dentro, il viso sbarbato e gli occhi neri, uno sguardo affaticato. Era lui, aspettava l’ascensore, con una mano appoggiata alla maniglia. Non mi nota neanche, si gira solo quando l’ascensore arriva e deve far entrare la valigia e in quel momento un tuffo al cuore: lo conosco! Luigi mi fa entrare e mi sorride come per salutarmi. “A che piano?” “Terzo” rispondo io “Ah, allora facciamo il viaggio insieme” e non riesco a spiccicare parola. Si passa ripetutamente la mano nei capelli guardandosi allo specchio e con la coda degl’occhi mi guarda con un mezzo sorriso. Non riesco a dire nulla. Vorrei parlargli dei “Cento passi”, de “La meglio gioventù”, vorrei chiedergli se è meglio Maya Sansa o Giovanna Mezzogiorno, e se è vero che ci assomiglio. Tutte domande troppo stupide. Magari potrei approcciare chiedendogli se si iscrive all’associazione Coscioni, e se è a favore di questa legge, ma non c’è tempo e rimango con uno sguardo ebete a fissarlo, fino a quando arriviamo al piano e non sono riuscita a dire nulla. Apre le porte sbagliate dell’ascensore e poi si gira con aria interrogativa. Sorrido “Si esce dall’altra parte” e gli tengo la porta, così può far uscire la trolley. Ci salutiamo e ci separiamo, non andava al partito, ma a un piano più su. Chissà a fare cosa, chissà se sa che lì c’è la sede del Partito radicale, se sa che lì io ci lavoro tutti i giorni o quasi. Sono sicura: è stato amore!
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Avevo freddo e una semplice maglietta a maniche corte non mi bastava. Così, nella pausa pranzo, sono scesa per andarmi a comprare alla Benetton un maglione di cotone. Tanto ci sono i saldi e non costerà molto. Così infatti è stato, ma questo è successo dopo, è un’altra storia. Ho impugnato il portafogli, ho percorso il salone del partito, ho salutato un paio di persone, ho preso l’ascensore e sono uscita dal palazzo. Per strada non c’era nessuno, solito deserto della pausa pranzo di via di Torre Argentina, dove si sentono le forchette del bar Pavia che sbattono sui piatti, i rumori di fondo della fermata dell’autobus di largo Argentina, qualche faccia conosciuta dei negozi che riaprono o che hanno appena chiuso, rumori di qualche trolley che cerca di scorrere tra i sanpietrini diretta alla casa famiglie dalle suore, nello stesso immobile del partito, ma al primo o al quinto piano. Niente di nuovo. Se non una faccia nuova, tra quelle già conosciute. Un mento lungo, occhi e capelli neri, occhiali in testa, barba sfatta, ma su un viso ancora puerile, quasi a chiazze. Un atteggiamento accaldato, anche se io avevo freddo e la trolley, come fosse un peso insopportabile, con il giacchetto di pelle scamosciato appoggiato sopra, in bilico. Lo guardo da lontano… lo conosco. No, non lo conosco, ma assomiglia a qualcuno. Lo passo, ma mi volto, forse lo conosco. Si volta anche lui. Mi rigiro di nuovo, se si è voltato lo conosco, e mi conosce pure lui… si rivolta anche lui.
Arrivo a destinazione e quasi non mi ricordo perché ero uscita. Entro e compro il maglione, 23 euro. Pago ed esco di fretta, come per vedere se è ancora lì che mi aspetta per capire chi sono. Arrivo davanti al portone del partito guardandomi attorno, nella speranza di re-incrociare quello sguardo. Nulla, ogni speranza è svanita. Entro nel portone, con lo sguardo abbassato. Lo alzo solo per suonare il citofono. Apro il cancello e mi trovo davanti la trolley, scarpe anonime nere, pantaloni di lino, camicia azzurra mezza fuori mezza dentro, il viso sbarbato e gli occhi neri, uno sguardo affaticato. Era lui, aspettava l’ascensore, con una mano appoggiata alla maniglia. Non mi nota neanche, si gira solo quando l’ascensore arriva e deve far entrare la valigia e in quel momento un tuffo al cuore: lo conosco! Luigi mi fa entrare e mi sorride come per salutarmi. “A che piano?” “Terzo” rispondo io “Ah, allora facciamo il viaggio insieme” e non riesco a spiccicare parola. Si passa ripetutamente la mano nei capelli guardandosi allo specchio e con la coda degl’occhi mi guarda con un mezzo sorriso. Non riesco a dire nulla. Vorrei parlargli dei “Cento passi”, de “La meglio gioventù”, vorrei chiedergli se è meglio Maya Sansa o Giovanna Mezzogiorno, e se è vero che ci assomiglio. Tutte domande troppo stupide. Magari potrei approcciare chiedendogli se si iscrive all’associazione Coscioni, e se è a favore di questa legge, ma non c’è tempo e rimango con uno sguardo ebete a fissarlo, fino a quando arriviamo al piano e non sono riuscita a dire nulla. Apre le porte sbagliate dell’ascensore e poi si gira con aria interrogativa. Sorrido “Si esce dall’altra parte” e gli tengo la porta, così può far uscire la trolley. Ci salutiamo e ci separiamo, non andava al partito, ma a un piano più su. Chissà a fare cosa, chissà se sa che lì c’è la sede del Partito radicale, se sa che lì io ci lavoro tutti i giorni o quasi. Sono sicura: è stato amore!
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venerdì, settembre 10, 2004
IL CASO "CECENIA".
Caro Daniele,
ho l’impressione che la tua prima dichiarazione di ieri sia stata dettata da una eccessiva fretta. E, correggimi se sbaglio, in qualche modo riforma la posizione radicale sulla Cecenia – se posizione radicale c’è mai stata sulla Cecenia e meglio sarebbe dire sul governo Mashkadov.
Permettimi di dissentire da ciò che tu scrivi. Raramente – quasi mai – sono intervenuta in questo forum e sempre meno in occasioni di dibattito politico tra noi. Credo, però, che quando ci si occupa di molto, non ci si dovrebbe occupare di tutto. Il rischio è l’amalgama semplicista, oserei dire di guidolimpizzarsi. E così tu fai quando scrivi e dichiari che “abbiamo lasciato che la cosiddetta "resistenza cecena", che si era a lungo mossa giocando la carta della elezione democratica del suo Presidente, che in qualche momento aveva anche scelto la carta nonviolenta, finisse invece travolta e risucchiata nella via sciagurata del terrorismo e del legame sempre più stretto con le organizzazioni fondamentaliste”.
Vedi, la Cecenia e, più generalmente, il Caucaso sono cose complicate. Ho la presunzione di conoscerle poco più di te, grazie ad una modesta lettura attenta di ciò che vi accade. Se posso, quindi, accetta un contributo al dibattito per te e per noi trecento lettori di questo forum.
Quanto alla complicatezza (e alla diffusa ignoranza) su questa regione, ti basti pensare che solo in questi giorni gli appassionati di cartine scoprono sui quotidiani dell’esistenza dell’Ossezia del Nord, del Karbino-Balkaria,, della Repubblica di Adygua, della Karatchaievo-Tcherkessia (che, tra l’altro, Stalin meglio avrebbe fatto a dividere in due), perfino dell’Inguscezia e del Daghestan. Certo, la Georgia è conosciuta perché da li veniva Joseph e poi Chevarnadze, ma pochi sanno delle guerre in Abkasia, Adjaria e Ossezia del Sud. E non mi avventuro oltre in questo Caucaso meridionale. Ortodossi cristiani, musulmani, tra l’altro tutti Montagnardi (se questa parola magica può contribuire a che qualcuno di noi si appassioni maggiormente a questa polveriera).
Da dove vogliamo cominciare, dalla Cecenia? Per favore, sfatiamo il mito della “resistenza cecena”. Questa non esiste più da tempo, nel senso che il popolo ceceno (e la sua resistenza) è ormai diviso da anni in fazioni in lotta. E’ la politica di cecenizzazione del conflitto di Putin: trasformare in una guerra civile quella che era una lotta contro un genocidio e per l’indipendenza (riconosciuta di fatto attraverso un trattato internazionale, un trattato di pace, dalla stessa Federazione Russa).
C’è il clan Kadyrov, a sua volta diviso al suo interno dopo la morte dell’ex muftì, perché il figlio, che meriterebbe l’Aia, è troppo giovane per poter essere rispettato. Dico intenzionalmente l’Aia, perché trattasi di crimini contro l’umanità e crimini di guerra (operazioni di pulizia, torture, uccisioni indiscriminate, traffico di cadaveri). A costoro si sono affidate le autorità russe. C’è poco da dire, anche perché non rientrano nella categoria di “resistenza”, bensì di collaborazionisti.
Poi ci sono Mashkadov e il suo governo democraticamente eletto sotto l’egida dell’OSCE nel 1997. I suoi ministri sono quasi tutti all’estero da anni, lui è nascosto e protetto nelle montagne, il suo esercito (con le uniformi e le armi) sta conducendo una guerra interna alla Cecenia contro obiettivi militari e amministrativi russi e del clan Kadyrov, finanziato in gran parte della diaspora e senza dubbio anche da organizzazioni islamiche (un fenomeno analogo e minore a quello che abbiamo visto nella Bosnia che volevamo entrasse nell’Unione Europea). L’esercito di Mashkadov ha compiuto operazioni anche fuori dalla Cecenia, in Inguscezia (che merita un discorso a parte), sempre contro obiettivi militari o strutture amministrative russe. Tutto ciò è da considerarsi terrorismo? Concorderai con me che sparare contro un elicottero militare russo sopra la base di Khankala non è atto terroristico, ma operazione militare. Stesso discorso vale per le mine contro i convogli dei russi o dei ceceni collaborazionisti, e per gli scontri a fuoco nelle montagne e nelle città. Possiamo discutere se lanciare un camion pieno di dinamite contro gli uffici “civili” (dove però sta pure l’FSB, ex KGB) russi sia un atto terroristico oppure trattatasi di atto di guerra. Epperò, se c’è una cosa che ho imparato nei miei viaggi in Israele e dalla democrazia israeliana, è che un conto è un attacco contro militari a Gaza, un altro è una bomba in un autobus a Gerusalemme. E finora, tranne prove contrarie, gli uomini di Mashkadov non se la sono mai presa con i palazzi dove vivono i civili russi (le colonie della Cisgiordania o di Gaza?), ma con le basi militari e gli uffici dell’amministrazione. Sul governo Mashkadov ci sarebbero molte cose da dire. Mi limito ad alcune osservazioni. Mai nessuno, nemmeno Oumar Khambiev quando disse la parola magica “nonviolenza”, ha mai affermato di voler usare solo la nonviolenza come metodo di lotta in quella che loro (ed io e la Russia che ha più volte dichiarato vittoria) considerano una guerra. Semmai, la non-violenza (o non violenza) è, da Oumar e da altri, considerata come uno strumento di lotta – così come per il nostro Kok, che rimane ancorato al suo sogno di uno stato indipendente – per portare avanti istanze precise. Ne è una dimostrazione il digiuno nei campi dell’Inguscezia (17.000, diciassettemila persone), che accompagnò Olivier Dupuis nel suo. Per il resto è guerra. Guerra che si avvale anche di strumenti politici, come il piano Akhmadov, divenuto piano Mashkadov, forse per la debolezza militare di quest’ultimo, ma poco importa. Siamo a 30.000 firme, con l’aiuto di un sito da tre mila contatti al giorno, di qualche mailing list e di qualche tavolo. Il resto lo hanno fatto i ceceni con metodo nonviolento. A proposito di Akhmadov, sbagli a dire che è stato marginalizzato nel nuovo governo: lui e Oumar sono stati promossi, mentre Zakayev – ben più ambiguo – è stato bacchettato e gli è stato lanciato un ultimo avvertimento. Mashkadov innocente? Non si sa, ma fino a prova del contrario si. E prove, per ora, non ve ne sono di un suo coinvolgimento diretto nel terrorismo che ha colpito e colpisce Mosca, l’Ossezia del Nord e la Cecenia. Perché anche in Cecenia c’è terrorismo da parte di ceceni, sia chiaro. Magari è quello delle donne kamikaze, che hanno perso tutto (fratelli, mariti, figli, padri) e che magari sono state violentate dai russi. Che significa? Secondo la barbara tradizione cecena – che prima o poi dovremo denunciare e combattere – le donne violentate non hanno più diritto di esistere e devono essere uccise. Ho la presunzione di pensare che nessuno del governo Mashkadov abbia, per un solo momento, gioito e sperato con la presa d’ostaggi della Dubrovka o della scuola numero uno? No. Per due ragioni. La prima è la vendetta, che è sentimento umano, quando, ad esempio, rapiscono la tua famiglia e minacciano di violentare le tue nipoti e sorelle per ottenere la resa del ministro della difesa Khambiev. La seconda sono i precedenti di Boudenovsk e di un villaggio del Daghestan, che portarono nel 1995 a un cessate il fuoco e nel 1996 alla pace. Complessivamente, 3.500 persone prese in ostaggio, 250 morti dopo l’intervento delle forze russe. La da te definita “resistenza cecena” non si è quindi lasciata travolgere e risucchiare “nella via sciagurata del terrorismo e del legame sempre più stretto con le organizzazioni fondamentaliste”. Il terrorismo ha spesso denunciato, non facendosene complice, ed ha perfino osato rompere con il terrorismo di Khattab e Basaev nel momento più difficile per il governo Mashkadov.
Eccone un altro di gruppo ceceno, questo si islamista e fondamentalista, che ha saputo e voluto farsi infiltrare dai mediorientali (giordani e sauditi) perché questo porta soldi, armi, potere. C’è Al Quaida? Forse, non ne sono certissimo. Qualche legame, di certo. Chamil Basaev non è da meno di Arafat che chiama alla guerra santa quando il suo potere vacilla. Sconfitto alle elezioni da Mashkadov, ripescato da lui all’inizio della seconda guerra e per la minaccia di una guerra civile, cacciato dallo stesso Mashkadov perché terrorista e potente. Ed anche perché i suoi legami con l’FSB sono molti. Lui ha combattuto con i russi in Abkasia e in altre regioni, repubbliche o province autonome russe. A lui è stato fatto invadere il Daghestan, per esempio, così da lanciare la seconda guerra ed eleggere Putin nuovo zar della Russia. E lui sarebbe potuto diventare il Kadyrov di turno, se le cose fossero andate diversamente.
Una piccola nota sui rapporti Basaev-Mashkadov: militarmente e politicamente sono entrambi troppo deboli per farsi guerra tra di loro. Ma non esiterebbero, credimi.
C’è un’altra componente della mitica resistenza cecena. Sono i giovani, ragazze e ragazzi disperati, che hanno visto, conosciuto, vissuto solo la violenza. E’ come se per te il cielo fosse diventato sinonimo di bombardamenti, la terra di terreni avvelenati da armi chimiche, l’andare a prendere un caffè il dover affrontare un check point, la tua casa le operazioni di pulizia… Hai mai visto le foto di Grozny? Non un solo palazzo che non sia crivellato dai proiettili o devastato dai bombardamenti. Non c’è nessuna possibilità di conoscere la nonviolenza. Questi giovani lavorano per i russi, per il clan Kadyrov, per Mashkadov, per Basaev, poco importa, perché l’indipendenza o l’autonomia o l’islam o altro non ha valore. Non c’è altro valore che la violenza. Una violenza che costa anche poco, salvo poi (specialmente per l’esercito russo) farsi tradire per poco più di quel poco.
Questa è la “resistenza cecena”, Daniele, e così la raccontano quelli che ci sono stati e forse la racconterebbe anche Antonio. O forse continuerebbe a raccontare del terrorismo dei russi contro i ceceni. Tecnicamente, intendo. Secondo la sua definizione giuridica. Oppure – come pianificato inizialmente, salvo poi doversi confrontare con le difficoltà sul terreno - trattasi di “genocidio”, che però oggi ha assunto un valore minore del terrorismo. Perché questa è la verità: come successo tante volte nella storia di questi montagnard, i ceceni si sono innanzitutto difesi da un genocidio. E’ questa la differenza con l’Iraq, la Palestina, l’Afghanistan, che i non-vedenti pacifisti vogliono ignorare: chiamino pure “resistenti” i terroristi iracheni o palestinesi che lottano contro l’occupante, ma come chiamiamo noi chi si difende da un genocidio?
Poche storie… è questo metodo russo applicato alla Cecenia che viene esportato, non il conflitto ceceno che si esporta e si fa risucchiare. Non è un caso se c’erano ingusci tra i terroristi di Beslan. In Inguscezia Putin ha esportato i suoi metodi ceceni. L’eroe dell’altro giorno, l’ex presidente Ruslan Aushev fatto fuori e sostituito dal generale e ghebista Ziazikov (con un vero colpo di stato legalizzato da elezioni truffa). La sua colpa era quella di voler tenere aperti i campi dei rifugiati ceceni. Era un fondamentalista? No. Da quei campi sono usciti a decine nelle braccia di Basaev. E con loro, decine di ingusci che non tollerano più l’oppressione russa.
Daniele, ci vuole pazienza, e quindi ti chiedo scusa e di averne ancora un po’. Non parlerò della Georgia, che però merita di essere citata perché grazie a una rivoluzione non violenta (Marco mi ha redarguito quando ho usato l’aggettivo nonviolenta) questo paese si avvia verso la democrazia, perché ha un primo ministro già compagno radicale, e perché i tuoi amici del Pentagono e del Dipartimento di Stato per una volta sono riusciti a lavorare insieme a George Soros (l’ordine può anche essere inverso, tanto questi non si sopportano a vicenda), in una sorta di perfetta sintesi di quella che potrebbe essere la politica estera radicale e americana. Non parlerò quindi del colonialismo russo in questo Caucaso Meridionale che vuole essere europeo (Saakaschvili ha detto più volte che vuole l’adesione) e che tanto (petrolio e gas, non dipendente dalla volontà egemonica del Cremlino) potrebbe dare all’Europa.
Mi limiterò a dire che ancora una volta hai ragione su una cosa: il Partito. Il Partito Radicale transanzionale è terribilmente e tragicamente assente. Parlo con poco diritto, perché ne sono solo un contribuente, ed è conseguenza della sua assenza. Parlo del Partito, perché Radicali Italiani interviene – in questo caso, a mio avviso, con poca conoscenza – solo quando è, appunto, in chiave italiana. E non credo che sarebbe utile un suo presenzialismo costante, perché già molti sono i fronti di lotta di cui hai il merito e l’onere. Ma il Partito, da quando Olivier ha mollato (e ognuno ha la sua rappresentazione delle ragioni che lo hanno portato a quella scelta), sulla Cecenia come su altri fronti, è stato un vuoto di iniziativa. Eppure mi pare che l’ostacolo del segretario che non permetteva al Partito di occuparsi di Cecenia si sia rimosso. Eppure mi pare che Olivier, dimettendosi, non abbia dimesso dal Partito anche la campagna per la difesa dei ceceni e per la democrazia in Russia. A meno che la tua riforma di ieri non fosse volta a denunciare questa campagna e chi l’ha condotta, cosa che non voglio credere. Dico a te, usandoti a pretesto per dirlo anche a Sergio e Danilo e Marco, che non siamo in pochi a volerci rimboccare le maniche su questo. E che questa era Ginevra, null’altro. (0) commenti
Caro Daniele,
ho l’impressione che la tua prima dichiarazione di ieri sia stata dettata da una eccessiva fretta. E, correggimi se sbaglio, in qualche modo riforma la posizione radicale sulla Cecenia – se posizione radicale c’è mai stata sulla Cecenia e meglio sarebbe dire sul governo Mashkadov.
Permettimi di dissentire da ciò che tu scrivi. Raramente – quasi mai – sono intervenuta in questo forum e sempre meno in occasioni di dibattito politico tra noi. Credo, però, che quando ci si occupa di molto, non ci si dovrebbe occupare di tutto. Il rischio è l’amalgama semplicista, oserei dire di guidolimpizzarsi. E così tu fai quando scrivi e dichiari che “abbiamo lasciato che la cosiddetta "resistenza cecena", che si era a lungo mossa giocando la carta della elezione democratica del suo Presidente, che in qualche momento aveva anche scelto la carta nonviolenta, finisse invece travolta e risucchiata nella via sciagurata del terrorismo e del legame sempre più stretto con le organizzazioni fondamentaliste”.
Vedi, la Cecenia e, più generalmente, il Caucaso sono cose complicate. Ho la presunzione di conoscerle poco più di te, grazie ad una modesta lettura attenta di ciò che vi accade. Se posso, quindi, accetta un contributo al dibattito per te e per noi trecento lettori di questo forum.
Quanto alla complicatezza (e alla diffusa ignoranza) su questa regione, ti basti pensare che solo in questi giorni gli appassionati di cartine scoprono sui quotidiani dell’esistenza dell’Ossezia del Nord, del Karbino-Balkaria,, della Repubblica di Adygua, della Karatchaievo-Tcherkessia (che, tra l’altro, Stalin meglio avrebbe fatto a dividere in due), perfino dell’Inguscezia e del Daghestan. Certo, la Georgia è conosciuta perché da li veniva Joseph e poi Chevarnadze, ma pochi sanno delle guerre in Abkasia, Adjaria e Ossezia del Sud. E non mi avventuro oltre in questo Caucaso meridionale. Ortodossi cristiani, musulmani, tra l’altro tutti Montagnardi (se questa parola magica può contribuire a che qualcuno di noi si appassioni maggiormente a questa polveriera).
Da dove vogliamo cominciare, dalla Cecenia? Per favore, sfatiamo il mito della “resistenza cecena”. Questa non esiste più da tempo, nel senso che il popolo ceceno (e la sua resistenza) è ormai diviso da anni in fazioni in lotta. E’ la politica di cecenizzazione del conflitto di Putin: trasformare in una guerra civile quella che era una lotta contro un genocidio e per l’indipendenza (riconosciuta di fatto attraverso un trattato internazionale, un trattato di pace, dalla stessa Federazione Russa).
C’è il clan Kadyrov, a sua volta diviso al suo interno dopo la morte dell’ex muftì, perché il figlio, che meriterebbe l’Aia, è troppo giovane per poter essere rispettato. Dico intenzionalmente l’Aia, perché trattasi di crimini contro l’umanità e crimini di guerra (operazioni di pulizia, torture, uccisioni indiscriminate, traffico di cadaveri). A costoro si sono affidate le autorità russe. C’è poco da dire, anche perché non rientrano nella categoria di “resistenza”, bensì di collaborazionisti.
Poi ci sono Mashkadov e il suo governo democraticamente eletto sotto l’egida dell’OSCE nel 1997. I suoi ministri sono quasi tutti all’estero da anni, lui è nascosto e protetto nelle montagne, il suo esercito (con le uniformi e le armi) sta conducendo una guerra interna alla Cecenia contro obiettivi militari e amministrativi russi e del clan Kadyrov, finanziato in gran parte della diaspora e senza dubbio anche da organizzazioni islamiche (un fenomeno analogo e minore a quello che abbiamo visto nella Bosnia che volevamo entrasse nell’Unione Europea). L’esercito di Mashkadov ha compiuto operazioni anche fuori dalla Cecenia, in Inguscezia (che merita un discorso a parte), sempre contro obiettivi militari o strutture amministrative russe. Tutto ciò è da considerarsi terrorismo? Concorderai con me che sparare contro un elicottero militare russo sopra la base di Khankala non è atto terroristico, ma operazione militare. Stesso discorso vale per le mine contro i convogli dei russi o dei ceceni collaborazionisti, e per gli scontri a fuoco nelle montagne e nelle città. Possiamo discutere se lanciare un camion pieno di dinamite contro gli uffici “civili” (dove però sta pure l’FSB, ex KGB) russi sia un atto terroristico oppure trattatasi di atto di guerra. Epperò, se c’è una cosa che ho imparato nei miei viaggi in Israele e dalla democrazia israeliana, è che un conto è un attacco contro militari a Gaza, un altro è una bomba in un autobus a Gerusalemme. E finora, tranne prove contrarie, gli uomini di Mashkadov non se la sono mai presa con i palazzi dove vivono i civili russi (le colonie della Cisgiordania o di Gaza?), ma con le basi militari e gli uffici dell’amministrazione. Sul governo Mashkadov ci sarebbero molte cose da dire. Mi limito ad alcune osservazioni. Mai nessuno, nemmeno Oumar Khambiev quando disse la parola magica “nonviolenza”, ha mai affermato di voler usare solo la nonviolenza come metodo di lotta in quella che loro (ed io e la Russia che ha più volte dichiarato vittoria) considerano una guerra. Semmai, la non-violenza (o non violenza) è, da Oumar e da altri, considerata come uno strumento di lotta – così come per il nostro Kok, che rimane ancorato al suo sogno di uno stato indipendente – per portare avanti istanze precise. Ne è una dimostrazione il digiuno nei campi dell’Inguscezia (17.000, diciassettemila persone), che accompagnò Olivier Dupuis nel suo. Per il resto è guerra. Guerra che si avvale anche di strumenti politici, come il piano Akhmadov, divenuto piano Mashkadov, forse per la debolezza militare di quest’ultimo, ma poco importa. Siamo a 30.000 firme, con l’aiuto di un sito da tre mila contatti al giorno, di qualche mailing list e di qualche tavolo. Il resto lo hanno fatto i ceceni con metodo nonviolento. A proposito di Akhmadov, sbagli a dire che è stato marginalizzato nel nuovo governo: lui e Oumar sono stati promossi, mentre Zakayev – ben più ambiguo – è stato bacchettato e gli è stato lanciato un ultimo avvertimento. Mashkadov innocente? Non si sa, ma fino a prova del contrario si. E prove, per ora, non ve ne sono di un suo coinvolgimento diretto nel terrorismo che ha colpito e colpisce Mosca, l’Ossezia del Nord e la Cecenia. Perché anche in Cecenia c’è terrorismo da parte di ceceni, sia chiaro. Magari è quello delle donne kamikaze, che hanno perso tutto (fratelli, mariti, figli, padri) e che magari sono state violentate dai russi. Che significa? Secondo la barbara tradizione cecena – che prima o poi dovremo denunciare e combattere – le donne violentate non hanno più diritto di esistere e devono essere uccise. Ho la presunzione di pensare che nessuno del governo Mashkadov abbia, per un solo momento, gioito e sperato con la presa d’ostaggi della Dubrovka o della scuola numero uno? No. Per due ragioni. La prima è la vendetta, che è sentimento umano, quando, ad esempio, rapiscono la tua famiglia e minacciano di violentare le tue nipoti e sorelle per ottenere la resa del ministro della difesa Khambiev. La seconda sono i precedenti di Boudenovsk e di un villaggio del Daghestan, che portarono nel 1995 a un cessate il fuoco e nel 1996 alla pace. Complessivamente, 3.500 persone prese in ostaggio, 250 morti dopo l’intervento delle forze russe. La da te definita “resistenza cecena” non si è quindi lasciata travolgere e risucchiare “nella via sciagurata del terrorismo e del legame sempre più stretto con le organizzazioni fondamentaliste”. Il terrorismo ha spesso denunciato, non facendosene complice, ed ha perfino osato rompere con il terrorismo di Khattab e Basaev nel momento più difficile per il governo Mashkadov.
Eccone un altro di gruppo ceceno, questo si islamista e fondamentalista, che ha saputo e voluto farsi infiltrare dai mediorientali (giordani e sauditi) perché questo porta soldi, armi, potere. C’è Al Quaida? Forse, non ne sono certissimo. Qualche legame, di certo. Chamil Basaev non è da meno di Arafat che chiama alla guerra santa quando il suo potere vacilla. Sconfitto alle elezioni da Mashkadov, ripescato da lui all’inizio della seconda guerra e per la minaccia di una guerra civile, cacciato dallo stesso Mashkadov perché terrorista e potente. Ed anche perché i suoi legami con l’FSB sono molti. Lui ha combattuto con i russi in Abkasia e in altre regioni, repubbliche o province autonome russe. A lui è stato fatto invadere il Daghestan, per esempio, così da lanciare la seconda guerra ed eleggere Putin nuovo zar della Russia. E lui sarebbe potuto diventare il Kadyrov di turno, se le cose fossero andate diversamente.
Una piccola nota sui rapporti Basaev-Mashkadov: militarmente e politicamente sono entrambi troppo deboli per farsi guerra tra di loro. Ma non esiterebbero, credimi.
C’è un’altra componente della mitica resistenza cecena. Sono i giovani, ragazze e ragazzi disperati, che hanno visto, conosciuto, vissuto solo la violenza. E’ come se per te il cielo fosse diventato sinonimo di bombardamenti, la terra di terreni avvelenati da armi chimiche, l’andare a prendere un caffè il dover affrontare un check point, la tua casa le operazioni di pulizia… Hai mai visto le foto di Grozny? Non un solo palazzo che non sia crivellato dai proiettili o devastato dai bombardamenti. Non c’è nessuna possibilità di conoscere la nonviolenza. Questi giovani lavorano per i russi, per il clan Kadyrov, per Mashkadov, per Basaev, poco importa, perché l’indipendenza o l’autonomia o l’islam o altro non ha valore. Non c’è altro valore che la violenza. Una violenza che costa anche poco, salvo poi (specialmente per l’esercito russo) farsi tradire per poco più di quel poco.
Questa è la “resistenza cecena”, Daniele, e così la raccontano quelli che ci sono stati e forse la racconterebbe anche Antonio. O forse continuerebbe a raccontare del terrorismo dei russi contro i ceceni. Tecnicamente, intendo. Secondo la sua definizione giuridica. Oppure – come pianificato inizialmente, salvo poi doversi confrontare con le difficoltà sul terreno - trattasi di “genocidio”, che però oggi ha assunto un valore minore del terrorismo. Perché questa è la verità: come successo tante volte nella storia di questi montagnard, i ceceni si sono innanzitutto difesi da un genocidio. E’ questa la differenza con l’Iraq, la Palestina, l’Afghanistan, che i non-vedenti pacifisti vogliono ignorare: chiamino pure “resistenti” i terroristi iracheni o palestinesi che lottano contro l’occupante, ma come chiamiamo noi chi si difende da un genocidio?
Poche storie… è questo metodo russo applicato alla Cecenia che viene esportato, non il conflitto ceceno che si esporta e si fa risucchiare. Non è un caso se c’erano ingusci tra i terroristi di Beslan. In Inguscezia Putin ha esportato i suoi metodi ceceni. L’eroe dell’altro giorno, l’ex presidente Ruslan Aushev fatto fuori e sostituito dal generale e ghebista Ziazikov (con un vero colpo di stato legalizzato da elezioni truffa). La sua colpa era quella di voler tenere aperti i campi dei rifugiati ceceni. Era un fondamentalista? No. Da quei campi sono usciti a decine nelle braccia di Basaev. E con loro, decine di ingusci che non tollerano più l’oppressione russa.
Daniele, ci vuole pazienza, e quindi ti chiedo scusa e di averne ancora un po’. Non parlerò della Georgia, che però merita di essere citata perché grazie a una rivoluzione non violenta (Marco mi ha redarguito quando ho usato l’aggettivo nonviolenta) questo paese si avvia verso la democrazia, perché ha un primo ministro già compagno radicale, e perché i tuoi amici del Pentagono e del Dipartimento di Stato per una volta sono riusciti a lavorare insieme a George Soros (l’ordine può anche essere inverso, tanto questi non si sopportano a vicenda), in una sorta di perfetta sintesi di quella che potrebbe essere la politica estera radicale e americana. Non parlerò quindi del colonialismo russo in questo Caucaso Meridionale che vuole essere europeo (Saakaschvili ha detto più volte che vuole l’adesione) e che tanto (petrolio e gas, non dipendente dalla volontà egemonica del Cremlino) potrebbe dare all’Europa.
Mi limiterò a dire che ancora una volta hai ragione su una cosa: il Partito. Il Partito Radicale transanzionale è terribilmente e tragicamente assente. Parlo con poco diritto, perché ne sono solo un contribuente, ed è conseguenza della sua assenza. Parlo del Partito, perché Radicali Italiani interviene – in questo caso, a mio avviso, con poca conoscenza – solo quando è, appunto, in chiave italiana. E non credo che sarebbe utile un suo presenzialismo costante, perché già molti sono i fronti di lotta di cui hai il merito e l’onere. Ma il Partito, da quando Olivier ha mollato (e ognuno ha la sua rappresentazione delle ragioni che lo hanno portato a quella scelta), sulla Cecenia come su altri fronti, è stato un vuoto di iniziativa. Eppure mi pare che l’ostacolo del segretario che non permetteva al Partito di occuparsi di Cecenia si sia rimosso. Eppure mi pare che Olivier, dimettendosi, non abbia dimesso dal Partito anche la campagna per la difesa dei ceceni e per la democrazia in Russia. A meno che la tua riforma di ieri non fosse volta a denunciare questa campagna e chi l’ha condotta, cosa che non voglio credere. Dico a te, usandoti a pretesto per dirlo anche a Sergio e Danilo e Marco, che non siamo in pochi a volerci rimboccare le maniche su questo. E che questa era Ginevra, null’altro. (0) commenti
venerdì, settembre 03, 2004
I 27 DEL MESE. Il mio capo si è rotto il femore, non mi pagano lo stipendio, sono sballottata da un’associazione ad un’altra, senza precisa definizione di lavoro e di obiettivi. Mi lamento in continuazione e a stento riesco a capacitarmi di essere in carne ed ossa. Sono il corpo di un’anima che sembra galleggiare sopra tutti e osservarli dall’alto, con un piccolo ghigno sul labbro superiore. Intanto da qui la gente parte per Bruxelles, per Nairobi, per Milano, per Merano, per il Cairo, per l’Aja, per New York, per Torino, per il Darfur e io resto ben salda alla sedia più comoda della stanza, l’unica ancora un po’ intatta. E’ un centro di smistamento e io resto con il minorenne della compagnia a “giocare al lavoro”. Poi anche lui tra un po’ partirà, perché tra pochi giorni ricomincia la scuola. La mia no, la mia è finita da ormai un paio d’anni, ma rimango comunque la “piccola” del gruppo, quella simpatica, da non prendere sul serio, quella che quando non c’è si sente, una sorta di colonna sonora, che tiene compagnia, o fa da accompagnamento alla storia. Le storie di tutti mi scivolano addosso o mi passano di fianco, vanno avanti da sole, mentre la mia la devo costruire con fatica e devo imparare a togliere un po’ di sorrisi, di buon umore, essere più seria, con i tacchi alti e il trucco, i capelli raccolti e la 24 ore. Battermi per arrivare al 27 di chissà quale mese, forse in uno a caso mi daranno un benedetto stipendio. Il giorno che arriverò mi giocherò tutto al Bingo.
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